QUE DIOS NOS PERDONE (CHE DIO CI PERDONI), di Rodrigo Sorogoyen (2017)

Squadra che vince non si cambia per Sorogoyen, e questo vale per i bravissimi attori di molti dei suoi film come per la collaborazione costante, quasi una co-regia, con la sceneggiatrice Isabel Peña. Li ritroviamo nel recente As bestas e in questo film del 2016, Che Dio ci perdoni. Affiatamento e contrasto di caratteri , ritmo e spessore psicologico dei personaggi appaiono così garantiti da belle interpretazioni e da una robusta scrittura, evidenti sin dalle prime inquadrature che dipingono l'ambiente umano e il retroterra culturale in cui si svolge l'azione. Caratteri e contesti risolti in poche pennellate efficacissime, sintetiche.

Madrid, 2011, visita di Benedetto XVI, un milione e mezzo di pellegrini per le strade, una catena di omicidi di vecchie signore derubricati inizialmente a semplici furti finiti male e perciò senza ulteriori indagini serie sui corpi, due detective che più diversi non potrebbero essere: questa la gatta da pelare affidata alla strana coppia Velarde e Álfaro, due perdenti nel mondo della centrale di polizia, due che non si possono licenziare per quanto un po' tutti lì lo vorrebbero. Che l'indagine sia loro perché non si vuole realmente andare a fondo nelle indagini ma piuttosto smorzare, contenere, temporeggiare e, soprattutto,  non urtare possibili connessioni altolocate?

Il teatrale machismo che ostenta nei dialoghi tra poliziotti quando si raccontano l'un l'altro le imprese, le spalle larghe, la camminata da cow boy del poliziotto Álfaro, è valso un Goya come miglior attore a Roberto Álamo, come l'averne reso contemporaneamente tutte le sfaccettature di un personaggio complesso, fragilità interiori, problemi esistenziali compresi: Alfaro non controlla emotività e aggressività, né le pose da macho compensano la disastrosa vita relazionale, il groviglio in cui è precipitato il suo matrimonio. Il pasticcio sentimentale e il disastro emotivo formano la miscela esplosiva che lo rende quel poliziotto pronto all'azione, generoso, impaziente che è e ne fa assieme la vittima ideale del fato.

Antonio de la Torre, che abbiamo conosciuto rampante, spregiudicato, astutissimo politico ne Il regno, qui, con grande duttilità interpretativa, costruisce sorprendentemente una maschera del tutto diversa, il timidissimo, introverso Velarde. Balbetta timido Velarde -lo prendono in giro i colleghi per questo-  ma osserva ogni dettaglio, controlla profili, cerca similitudini comportamentali, ricostruisce scene del crimine calandosi nella mente di quello che, grazie al suo acume, si rivelerà uno stupratore di vecchiette mosso da motivazioni ben diverse dal furto.
Osserva minuziosamente corpi, oggetti. Nulla gli sfugge, con questi non sbaglia, di questi conosce il linguaggio, i segni. Non così con le donne. Non così con la donna che gli piace tanto e che lava le scale nel suo condominio. Incapace di approccio, la spia nascosto dietro la porta.  Anche lei si ferma e ascolta la musica bella e intrisa di tristezza che lui mette, quel fado di Amalia Rodriguez di cui entrambi non conoscono le parole ma che sembra loro parlare di solitudine dell'anima. 
Maldestro, non riconosce i segnali di dialogo che Rosaria gli lancia.
Bello, tenero, il loro impaccio nel lungo primo piano dei loro volti mentre aspettano che il pavimento asciughi in un approccio che vorrebbe essere romantico ma che Luis, maldestro e impaziente, rovina.
Non sangue ma un bicchiere di gazpacho versato sul tappeto a ricordargli per sempre quanto è maldestro con le donne.

Il contesto è la routine nelle indagini contro cui lottare e che fa naufragare tutti gli scrupoli investigativi negli impedimenti della burocrazia, nel mare di scartoffie dove tutto si perde, è la catena di comando a cui attenersi con le risse tra colleghi per il primato o la titolarità dell'inchiesta come tra Alfaro e Alonso/Luis Zahera, gli ordini dall'alto e i contrasti tra chi per brama di carriera o quieto vivere li accetta e chi è ormai ossessionato dal caso e vuole a tutti i costi prendere un killer seriale.
La routine produce schemi interpretativi del reale che favoriscono da un lato ma tolgono dall'altro, ciò che si guadagna in velocità lo si perde in freschezza nell'approccio, in capacità di cogliere l'inutile, l'inedito, ciò che sfugge dallo schema: questo il muro di gomma contro cui si scontra Velarde, questo insieme di acume e ostinazione l'attitudine intellettuale, caratteriale che lo rendono allo stesso tempo un diverso, un impedito nella vita relazionale quanto un bravo segugio nella professione. 
E un bravo segugio non esce più dalla propria ossessione : prende il ladro, l'assassino perché ha imparato a ragionare come lui. La partita è tra loro due ormai e dura quanto dura una vita. A costo della vita stessa. 



Dello snodarsi della trama, dei colpi di scena, degli inseguimenti, dei colpi di scena non diremo invece niente, come dell'abilità con cui è evocato l'humus in cui si formano certe perversioni capaci di rovinare vite. 

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