Rimozione e falsa coscienza nel film LA ZONA DI INTERESSE, di Jonathan Glazer

Perché vediamo ciò che vediamo e non altro?

Un passaggio dal buio alla luce è la sequenza iniziale del film, un lungo momento che sembra non finire di buio assoluto in cui cresce l'inquietudine assieme alla percezione di non leggibilità immediata di suoni in crescendo: uno stridore metallico, il basso sordo monocorde della colonna sonora di Mika Levi, evoca immagini di una macchina implacabile, di una forza oscura. D'altronde, che rumore ha l'inferno o, ancora, esistono forse immagini che possano rendere l'inumano?
Poi, cinguettii annunciano la luce man mano che lo schermo apre su un paesaggio campestre, un fiume, giovani uomini in costume, in barca, bambini biondissimi che giocano, una merenda sull'erba, donne col capo cinto di trecce. Un idillio dai colori di cartolina intrisi di luce. Quando la scena si sposta poi sul ritorno a casa del gruppo, la m.d.p.inquadra la grande casa confortevole, il giardino dai viali ordinati, indugia con colori più realistici, incisivi, sull'orto rigoglioso, orgoglio della padrona di casa, le aiuole traboccanti di tagetes, girasoli, rose, il bucato bianco steso al sole. Si completa così il quadro di una operosa, ordinata quotidianità borghese, di una famiglia perfetta. Glazer ci fa vedere insomma il perimetro del mondo mostrandolo coi colori stessi in cui lo vede( lo vuol vedere)lei, Edwig, questo il nome di chi fa crescere roseti alti e traboccanti di corolle lungo quel muro alto e di grigio di cemento, a marcare quell'al di là del muro che non vuole "vedere" dall'al di qua su cui intende regnare. "Mio marito mi chiama la regina di Auschwitz ", dirà compiaciuta alle amiche in visita per il tè mentre mostra loro i brillanti trovati nell'orlo delle vesti o nascosti nel dentifricio dalle internate nel campo. "Sono molto furbe", sottolinea sarcastica, come stesse parlando di animaletti da stanare, di piccole volpi di cui conosce i trucchi. La disumanizzazione dell''altro" comincia così,  dal linguaggio che riduce a cosa, a numero. E una cosa si può senza remore usare e gettare via, una vita ridotta a numero si può cancellare con un tratto di penna.
Il "bello" insomma usato come rimozione, la menzogna a sé stessi come falsa coscienza.

Glazer alterna  le sequenze dedicate a Edwige a quelle in cui nello stesso istante il marito, il comandante Höss, "lavora", riceve la delegazione giunta da Berlino a verificare l'efficienza del campo sotto il suo comando. Il linguaggio, ancora una volta, è rivelatore: quegli uomini in divisa parlano di efficientamento, di utile, di miglioramento della produzione, di "pezzi" difettosi da eliminare. Sono ingegneri, economisti, ragionieri, tecnici nella mentalità, e come tali non tenuti a pensare ma a eseguire al meglio il compito che è stato assegnato loro. Hannah Arendt scoprì così quella che chiamò la "banalità del Male", analizzando le parole con cui costruiva la sua autodifesa uno di loro, Eichmann, durante il processo di Norimberga, uno di quei grigi esecutori di direttive che, attraverso questi mascheramenti della coscienza, potevano pensare sé stessi innocenti, probi, impeccabili uomini solo dediti al dovere. E se il dovere è sostituire, sopprimere uomini che sono stati inventariati come "pezzi"non più utili si fa senza discutere.
"Mio marito adora il suo lavoro", dice Edwig alle amiche. Il marito, mentre al telefono le racconta la cena sontuosa alla quale sta partecipando, conferma questa immersione/identificazione totale coi suoi compiti confessandole di aver impiegato tutto il tempo del ricevimento a calcolare quanto gas sarebbe stato necessario per gasare tutte le persone contenute in quella sala.

Cosa rese possibile a milioni di persone il vivere contigui all'orrore e non vederlo?cosa ha prevalso in loro tra l'evidente realtà di quel fumo( ah, quel fumo acre e grasso che si fa fatica a lavar via!)e la brama di ascesa sociale della piccolissima borghesia che da quella realtà traeva vantaggio, vera base del consenso di massa in ogni tempo a ogni regime?
La Edwig magistralmente interpretata da Sandra Hüller, la stessa Hüller che è stata in altri film intellettuale ambigua o manager inquieta, ora scolpisce il suo personaggio di nuova ricca di estrazione popolare accentuando l'andatura goffa, le spalle curve, la postura inelegante, mentre si pavoneggia allo specchio con una bella pelliccia, dentro una eleganza che non le appartiene e che è frutto delle sue "conoscenze" nel campo. Dall'arrivo in visita della madre sapremo che dentro il campo è rinchiusa quella signora Silberman presso la quale lei andava a servizio. La madre ora si compiace dell'ascesa sociale della figlia, degli agi, del benessere che le procurano quegli scambi ineguali, del mondo ordinato che si è costruita intorno.
Il "male" non è intelligente, semmai furbo e gretto, conosce solo il proprio utile, proviene magari da una donna che pensa sé stessa come una brava massaia, come una buona moglie e madre che difende solo il proprio territorio vitale. Quando però è nervosa -perché la madre dopo una notte insonne fugge nottetempo lasciandole una lettera di cui potremo solo immaginare il contenuto- non esita a sfogarsi minacciando la serva polacca di far concimare con le sue ceneri l'orto.

Il linguaggio, è vero, aiuta a formarsi una falsa coscienza di sé. Può rivelare al contempo le verità ricacciate nel fondo. 
"Coloni", così chiamavano/pensavano sé stessi gli Höss e quelli come loro, avanguardie mandate dal regime in terre abitate da subumani da civilizzare, in cui portare la loro "civiltà" superiore, l'ordine. 
L'ordine, quel recinto entro cui sentirsi sicuri, compare simbolicamente nel film nei vialetti del giardino degli Höss come nei grafismi bianco/neri dei marmi del quartiere generale, nelle geometriche perfezioni delle alte vetrate. Il vomito di Höss che, incontenibile, lo assale sulle scale nelle sequenze finali tradisce forse un sussulto di verità, quanto meno del corpo.

Non sempre il buio, il nero, è il colore del male. Se nel palcoscenico della storia è il male a dominare è ad esso che sono riservati i colori, la ribalta illuminata, in questa realtà rovesciata il bene non può allora che nascondersi, resistere, operare nell'ombra, nel buio.
Ecco l'intuizione del regista di rendere questa inversione simbolica luce/buio girando queste sequenze con una camera termica. Questa gli consente di inserire nel racconto l'operare silenzioso nel buio della notte della piccola resistente polacca che distribuisce cibo nascondendolo tra gli attrezzi da lavoro, tra le pietre e i pendii perché alcuni fortunati tra loro possano trovarlo. Perché anche una sola vita strappata alla morte è salvezza della possibilità del futuro .

Ancora luce, da uno spioncino, piccolo foro che progressivamente si allarga: la luce del presente irrompe in quei luoghi di annientamento sotto forma di squadre operose di inservienti che spazzano,  portano un ordine di segno inverso in quei luoghi. È il dovere della memoria, ma veder quelle operaie lucidare i metalli dei forni, pulire con lo spray i vetri dietro i quali sono custoditi quei poveri resti, quelle memorie di vite di cui rimangono solo stracci provoca un brivido. Un brivido più grande se, come ci ricorda Glazer nel discorso pronunciato dopo la premiazione, pensiamo che quanto è accaduto accade ancora e ancora. Sta accadendo anche oggi.
📽Marisa Sapienza





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